La necessaria evoluzione dello smart working da “lavoro da casa” a sistema agile

Ci sarà un perché se l’Italia è il fanalino di coda nello sviluppo dello smart working a livello mondiale, ultima in Europa e lontana distanze siderali dagli USA dove nei prossimi due anni supererà il 70%.
Mentre i dati della sua crescita sono altrove a doppio digit, imponendosi come fenomeno sociale prima ancora che organizzativo, da noi stenta ancora a decollare: si applica perlopiù nelle grandi imprese, ma nel restante tessuto industriale viene visto come un “lusso” e un “plus” non sostenibile.
Il perché risiede nella circostanza che da noi è spesso ancora considerato come “lavoro da casa”, secondo un modello che di innovativo ha solo il nome. Nelle aziende in trasformazione, certo, un progetto di smart working non si nega a nessuno, salvo poi a fari spenti sentir emergere le perplessità dei manager chiamati ad applicarlo.
Il problema è che con questo approccio (nome altisonante, regole vecchie) non andremo da nessuna parte, almeno sino a quando non si svilupperà una nuova cultura organizzativa di sistema integrato dello smart working e non si smetterà di applicare a coloro che “lavorano da casa” le stesse logiche del rapporto di lavoro di 50 anni fa.
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La provocatoria introduzione serve a dire che lavorare da casa facendo le stesse cose, nello stesso modo, con gli stessi meccanismi operativi tradizionali, non è “smart working” né lo diventerà mai, trattandosi quest’ultimo di un modello strettamente derivato dall’evoluzione digitale e social che richiede innovazioni strutturali nel sistema del lavoro per poter essere efficace.
Non a caso i dubbi di chi lo sperimenta sono quelli tipici del modello tradizionale: l’azienda, va bene, lo fa per andare incontro alle esigenze di qualità della vita delle persone, ma poi all’atto pratico:
• perde molto in termini di produttività dei suoi lavoratori;
• registra un loro totale isolamento organizzativo e un connesso disallineamento informativo/operativo;
• sconta la difficoltà di fare team, di avere un gruppo coeso che lavora insieme verso obiettivi comuni.
Tutte cose vere se viste con gli occhi di chi ha davanti lo statuto dei lavoratori nel 1970, superate o da superare se considerate alla luce del nuovo modello sociale e digitale che caratterizzerà il lavoro nei prossimi anni.
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La prima riflessione da cui partire per guardare le cose in modo diverso è che lo smart working introduce un elemento di radicale discontinuità rompendo le tipiche dimensioni spazio – temporali su cui si sono basate per decenni le regole del contratto di lavoro: quelle che assicurano (o assicuravano) il funzionamento produttivo attraverso una prestazione lavorativa resa in azienda per 8 ore al giorno dal lunedì al venerdì.
Le due dimensioni – il tempo e lo spazio – non sono più quelle di una volta nel loro vissuto quotidiano, e l’avvento delle nuove tecnologie ci chiede di fare i conti con un nuovo modello di funzionamento di questi (ex?) fattori della produzione*.
Per quanto riguarda il tempo: più o meno tutti siamo ormai “always on” senza alcuna demarcazione tra orario di lavoro e tempo personale, impegnati a gestire problemi ed email in tutte le 24 ore della giornata.
Il tempo è diventato così una risorsa da gestire a prescindere dall’orario di lavoro e da quanto si sta in azienda, ed è ormai diffusa la consapevolezza che la produttività non è più correlata alle ore in cui il lavoratore è presente in ufficio. Se poi tutta italica è l’abitudine di fermarsi al lavoro sino a tarda ora talvolta “a prescindere” dai reali impegni operativi, altrettanto lo è la progressiva perdita di produttività che ha visto il nostro paese in preoccupante arretramento rispetto agli altri paesi europei. Per capirci ancora meglio con una nuova provocazione: chi sta in ufficio davanti al computer, sta chattando su facebook con gli amici o elaborando un report?
Questo del tempo è dunque un primo punto su cui lo smart working può fare la differenza perché permette una responsabile autorganizzazione dinamica e flessibile della propria giornata di lavoro correlata agli obiettivi, ridando valore a una dimensione che certamente incide molto sulla produttività.
Lo stesso vale per lo spazio: ci si vede con il team quando serve, mentre ci sono dei momenti in cui è più importante stare soli per poter magari elaborare un documento ben concentrati. E invece di ricercare in azienda – i cui spazi sono sempre più “ottimizzati” dalle funzioni di Real Estate – luoghi adatti per l’una o l’altra circostanza, ben si può modulare il tutto attraverso una mobilità casa – ufficio funzionale al miglior obiettivo da conseguire. Lo smart working serve dunque ad una gestione flessibile degli spazi di lavoro: chi guida è la persona e il suo senso di responsabilità, in una accezione del lavoro che è fatta di “azioni da fare/con gli altri/ verso un risultato”, a prescindere da dove si sta fisicamente.
Un esempio in negativo che fa da “prova del nove” di questo concetto: quante mail ci scriviamo da una scrivania all’altra nella stessa stanza senza parlarci? Che valore ha questo in termini di spazio di lavoro comune?
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Il superamento della dimensione spazio-temporale della prestazione lavorativa è di per sé dirompente ed attraversa tutta la struttura normativa ed organizzativa alla base del lavoro. La sua forza abilita senz’altro, se ben indirizzata, lo sviluppo dello smart working ma da sola non basta; quest’ultimo richiede un sistema integrato di interventi ed una dedicata progettualità senza la quale inevitabilmente si improvvisa, si fa solo “lavoro da casa”, vanificando le potenzialità dello strumento.
Di seguito le principali aree di intervento su cui agire per dar corpo a questo sistema integrato.
I sistemi e i processi. La tecnologia ICT è fondamentale, intesa nel senso più digitale che si può: servono piattaforme inclusive su cui interagire a distanza e server per ricevere e inserire informazioni, che fanno da tramite tra contenuti e persone ovunque esse siano. La nostra vita lavorativa è ormai in rete, ed i sistemi devono permetterci di rendere invariante la nostra ubicazione fisica con soluzioni molto diverse dalle email, strumento ormai obsoleto e non più adatto a supportare le attività operative. Prova ne è l’abuso e l’entropia crescente che queste ultime generano nella comunicazione comune provocando distorsioni produttive all’intero sistema (secondo film già visti: “ti sei chiarito con Pippo? No ma gli ho scritto una mail alla quale mi ha risposto che Pluto ha inoltrato a Paperino..…”).
L’insieme delle attività svolte all’interno dell’azienda per creare valore deve poi essere rivisto drasticamente, per far sì che ogni fase sia pensata come aggiuntiva alla precedente – senza rework – a prescindere da dove e quando viene generata. Attenzione: questo un passaggio chiave per l’economia digitale e non solo per lo smart working, ma senz’altro serve a quest’ultimo fine per abilitarne l’efficacia.
Le regole di ingaggio delle persone. Si deve passare dal task all’obiettivo misurabile, in una dimensione in cui la delega non è più facoltativa ma insita nel sistema. Lo stesso vale per la responsabilizzazione del singolo, che grazie alla delega ricevuta diventa essa stessa un modello di funzionamento del sistema, il vero motore del nuovo lavoro “smart”.
Servono regole a maglie larghe, meno dettagliate, più sui risultati che sui singoli “pezzi” da produrre, ma al tempo stesso regole chiare e trasparenti da monitorare con KPI di performance che sostituiscano i tradizionali sistemi di assegnazione dei compiti in azienda e valutazione delle prestazioni.
Le competenze digitali. Non si improvvisano, vanno formate e devono permeare tutta l’organizzazione, non solo gli smart workers, perché il sistema dialoghi in modo simmetrico e fluido senza confini spazio-temporali.
L’organizzazione. Senza andare troppo lontano, come pure si dovrebbe, è essenziale una riconsiderazione dei ruoli organizzativi tradizionali per adattare i nuovi ruoli ad attività i cui confini operativi – sempre più flessibili e dinamici – non coincidono più con i profili tradizionali.
La leadership. La nuova relazione capo – collaboratore porta ad una radicale trasformazione del modello di leadership, che deve vedere il capo come:
• abilitatore del lavoro altrui e del relativo risultato più che come controllore del compito affidato;
• diffusore di conoscenze e informazioni, prima “riservate” leve di potere in mano al capo e ora necessario patrimonio comune per disporre della necessaria capillare consapevolezza su obiettivi, dinamiche interne ed esterne all’azienda, ecc.;
• stella polare nell’orientamento verso l’obiettivo dello smart worker; quest’ultimo deve essere supportato nell’acquisizione di tutte le informazioni e delle capability necessarie a decidere e ad agire verso il risultato.
Il team di lavoro. Sembra a molti il vero tallone d’Achille, ma in realtà se le community virtuali dei social hanno ormai quasi soppiantato le altre community legate alla fisicità altrettanto può accadere nell’ambito dello smart working: confronti, discussioni, momenti di allineamento e di motivazione prescindono sempre di più dalla prossimità fisica, che può certo ancora servire ma non è più l’elemento aggregante del team.
Quest’ultimo vive e si alimenta in modo virtuale, e sta solo nell’abilità del leader dare carattere alle piattaforme operative di comunicazione in modo che diventino l’anima del gruppo, la “piazza” di ritrovo, di confronto e di stimolo alle azioni complementari che il team porrà in essere verso l’obiettivo. In una dimensione operativa di apprendimento continuo in cui lo smart worker risiede scambiando informazioni, dati, valutazioni, commenti e perfino gossip. Perché la vita aziendale e del team è fatta di tutto questo.
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Le aree di progettualità sopra delineate acquistano valore solo se sviluppate contemporaneamente, per abilitare un cambiamento (lo smart working) che in realtà si poggia su un altro cambiamento epocale in corso: quello delle nuove frontiere del lavoro e dell’organizzazione digitale. Questa circostanza complica la progettualità dello smart working ma poi paradossalmente ne semplifica l’applicazione, trovando terreno fertile nei nuovi paradigmi dell’organizzazione digitale e della vita social.
Il progetto di smart working diventa così un sistema inclusivo in cui si realizza il trasferimento di responsabilità ed imprenditorialità verso le persone, con soluzioni che prima “ibridano” e poi superano quelle finora vigenti per l’impiegato classico.
Un sistema che ormai sta diventando necessario e urgente da implementare se è vero che, come molti sostengono, la categoria professionale dell’impiegato classico – inquadrata nello spazio e nel tempo – tra poco non esisterà più.
E i vuoti, in natura, devono essere riempiti o si riempiono da soli con ciò che capita.
 
Roma, 12 aprile 2019
 
 
Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta
 
*concetti questi che sono ben rappresentati, insieme a molti altri sul tema, da Alessandro Donadio nel suo testo “Smarting up!” edito da Franco Angeli
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