In questi giorni è esplosa in Italia la rivolta del settore della pesca nei confronti dell’Unione Europea, a causa del provvedimento che è entrato in vigore il 1° giugno a tutela delle specie ittiche. E’ da diversi giorni che la stampa dedica ampio spazio alle conseguenze delle decisioni prese a Bruxelles: il danno economico per i pescatori, la mancanza di materia prima per numerose specialità della gastronomia locale, la perdita di tradizioni che rappresentano la storia stessa delle comunità costiere.
La protesta è unanime: nessuna voce si alza in difesa di un mare ampiamente sfruttato, nessuno si preoccupa di specie a rischio, mentre è alto il timore che l’imminente stagione turistica possa subire importanti danni dalle inevitabili cancellazioni di prelibatezze dai menù dei ristoranti sul mare.
Nei confronti della classe politica nazionale, si vuole la rapida richiesta di una deroga al provvedimento, almeno per salvare gli introiti di questa estate, con la speranza di ottenere una modifica permanente all’ordinanza UE. Ma l’irritazione è fortissima nei confronti dell’istituzione europea, accusata di avere preso altre decisioni contrarie al sistema agroalimentare nazionale. gli esempi non mancano: si va dalla “aranciata senza arance” al vino rosato miscelando vino bianco e rosso (e non, correttamente, da una particolare lavorazione delle uve rosse), dal formaggio in cui la caseina sostituisce il latte, alla libertà di addizionare al vino sia zuccheri che ne alzino la gradazione alcolica, sia trucioli di legno che ne simulino il sapore dell’invecchiamento in botte.
Il quadro che ne esce è desolante per una istituzione che era nata con l’intenzione di includere al suo interno le esigenze di tutti i Paesi componenti, in un equilibrio rispettoso innanzi tutto del consumatore. Invece, su questa visione ha prevalso con forza l’opera delle grandi aziende alimentari del nord Europa, le stesse che aprendo indiscriminatamente le frontiere al tessile cinese, hanno danneggiato in modo grave l’industria dell’abbigliamento italiana e spagnola.
Nel caso delle misure sulla pesca, di scarsa utilità pratica poiché saranno i paesi del Nord Africa, liberi dai vincoli europei, a poter pescare liberamente nel Mediterraneo, in molti vedono la rapacità delle aziende olandesi che importano per rifornire tutta l’Europa pesce dall’est asiatico. Tra cui il famigerato pangasio, un succedaneo di scarsissime proprietà nutritive e praticamente insapore proveniente dai fiumi del Vietnam, largamente inquinati dalle industrie locali: importato ad un costo inferiore ad un euro per chilogrammo, e che assicura ai grossisti del Nord Europa utili impressionanti, essendo venduto sul mercato – surgelato – a un prezzo intorno ai 6 – 7 euro.
Molti operatori sono oggi convinti che il divieto di pesca del novellame, consumato in Liguria come “gianchetti”, serva ad aprire un mercato per gli omologhi cinesi provenienti da acque sulla cui salubrità non vi è alcun controllo, con evidenti rischi per il consumatore.
L’istituzione europea sta mostrando sempre più la sua dipendenza dal potere delle grandi aziende del Nord Europa, danneggiando senza alcuna remora le economie dei paesi del Mediterraneo, le cui produzioni agroalimentari (olio, vino, agrumi e altro) sono penalizzate da succedanei di bassa qualità, sofisticazioni, concorrenza sleale da paesi extraeuropei.
Inizia a crearsi, di conseguenza, un blocco di Paesi che lotta contro le decisioni comunitarie: ad esempio, la moratoria per la commercializzazione del tonno rosso vede unite Spagna e Francia dietro la capofila Italia.
L’economia tedesca ha ampiamente beneficiato dell’integrazione europea: nel breve periodo tra il 2000 e il 2008 le esportazioni della Germania in area Euro sono cresciute dal 19 al 25% del Pil, consentendo al “campione del mondo dell’export” di raggiungere NEL 2008 un surplus della bilancia commerciale pari a 200 miliardi di euro. La moneta unica ha provocato la scomparsa dei rischi valutari, e l’allargamento ad Est ha aperto un immenso mercato per i prodotti teutonici.
Ora che il mercato potenziale per i prodotti tedeschi sta esaurendo la sua forte crescita, le grandi imprese stanno allungando i loro tentacoli su settori dell’economia in cui la Germania non ha mai avuto leadership: l’agroalimentare è il più importante di essi. la smania regolamentatrice che ha tentato di vietare la cottura nel forno a legna per la pizza o la stagionatura in vasche di marmo per il lardo di Colonnata (dopo secoli di tradizione) sta ora colpendo altri settori, in due modalità favorevoli alle industrie del Nord Europa.
La prima, è il divieto di produzione di alcuni beni (quali i prodotti della pesca) da sostituire con succedanei di bassa qualità, ma alto margine per gli importatori, provenienti dal resto del mondo in particolare dall’Est asiatico.
La seconda, è lo stravolgimento di prodotti alimentari che ne consente legalmente la contraffazione a danno dei consumatori. Ne sono esempi le “bevande di fantasia” quali l’aranciata priva di succo d’arancia, ottenuta con zuccheri, coloranti e aromi artificiali, o il formaggio prodotto con caseina, una polvere a basso costo di cui, come denuncia Sergio Marini, presidente di Coldiretti, “l’industria italiana ne acquista 15 milioni di chili l’anno per produrre latticini e formaggi, all’insaputa dei consumatori e a danno degli allevatori”.
Rinunciare al nostro sistema agroalimentare significa rinunciare alle nostre tradizioni: non è questa l’Europa che vogliamo.